martedì 26 giugno 2012

Esercizi correttivi per crostate

Crostata estiva di marmellata e frutta con crumble




Talvolta può capitare di avere nel frigorifero un mezzo barattolo di marmellata di ciliegie, di quella fatta in casa, da consumare velocemente e, nello stesso tempo, quattro pesche non più nel fiore dell'età, e di usare il tutto per farcire una crostata...
Può però altresì accadere  che la medesima, messa nel forno, stenti a rassodarsi per la presenza di troppi liquidi. Tuttavia un rimedio c'è: basta aggiungere un crumble - ossia uno strato di briciole di frolla - di copertura e la crostata può, senza troppe difficoltà, tornare sulla retta via; anzi, direi, trovare una sua dimensione, con risultati decisamente più che soddisfacenti.

Per una crostata da riportare sulla retta via

Per il ripieno
mezzo barattolo di marmellata
quattro pesche pelate e tagliate a piccoli pezzi

Per il crumble
un cucchiaio di burro
due cucchiai di farina
un cucchiaio di zucchero

Per la pasta frolla
200 gr farina 00
100 gr burro
1 pizzico di sale
un cucchiaio di acqua fredda

Impastare insieme tutti gli ingredienti per la pasta frolla; va bene anche metterli in un frullatore, però la pasta va raffreddata dopo in frigorifero, anzi, è meglio se viene preparata il giorno prima e messa a raffreddare.
Stendere la pasta con un matterello dandole forma della teglia e dimensioni leggermente più grandi, per poter fare dei bordi leggermente rialzati.
Stendere la sfoglia nella teglia precedentemente imburrata e infarinata; bucherellare la superficie della pasta prima di riempirla con la marmellata e con le pesche pelate e tagliate a piccoli pezzi.
A parte preparare il crumble: mettere il burro in un cucchiaio e scaldarlo sulla fiamma piccola del gas fino a che non comincia a sciogliersi; metterlo in un piatto con la farina e lo zucchero, mescolandolo e sgranandolo con le mani in modo da formare delle briciole compatte. 
Cospargere la superficie della crostata con le briciole e mettere a cuocere nel forno preriscaldato a 180/200 gradi per 40 minuti circa.

sabato 23 giugno 2012

Il riposo del guerriero

Aliter dulcia - French toast - Pain perdu - Arme Ritter




Continuiamo così, facciamoci del male; almeno la domenica...
Iniziando la giornata con calma e con una colazione degna di questo nome.
Luxe, calme et volupté, insomma.

Tutto è iniziato - almeno per quanto mi riguarda - con il film Kramer contro Kramer del 1979; Dustin Hoffman, abbandonato dalla moglie Meryl Streep cerca di preparare al figlio i french toast per colazione.
Allora non c'era ancora internet, e non ricordo dove sono riuscita a trovare la ricetta;  forse su qualche rivista, o su qualche libro,  come si usava allora, o magari per caso.

Ad ogni modo, ora che, con i potenti mezzi della rete, riesco a documentarmi se non più veracemente, più velocemente - nonché voracemente- sulla scorta delle informazioni ricavate da vari siti, perlopiù anglosassoni, nonché da wikipedia  vi dirò che:

- l'origine del piatto, in versione dolce, risale all'antica Roma, infatti ne parla già Apicio nel De re coquinaria, (e uno dei nomi francesi ancora persistente per questa ricetta è infatti Pain romaine), dove per addolcire al posto dello zucchero viene, ovviamente, usato il miele 

- non sappiamo se lo abbiano diffuso gli antichi romani o se, come probabile, sia uno di quei piatti talmente universali, dato il tipo di ingredienti da essere preparato in tutti i luoghi (e in effetti, dato i presupposti, lo proporrei per la candidatura a patrimonio mondiale dell'umanità UNESCO) - fatto sta che nel medioevo ne troviamo notizie in vari paesi, sempre come pane imbevuto di uova, fritto e condito con varie salse, sciroppi o succhi, più spesso dolci ma anche salati.
Di origini quasi sicuramente europee (esistono però anche varianti mediorientali) si è comunque diffuso, attraverso le colonizzazioni, anche nei paesi asiatici.
Si trovano comunque sue tracce anche nei ricettari medioevali (ad esempio il Libro de Arte Coquinaria scritto da Maestro Martino da Como nel 1450, che lo chiama Suppa dorata)

- I paladini della versione dolce - diffusa nei paesi anglosassoni tramite la dominazione dei Normanni, che lo chiamavano Pain doreè - sono stati i francesi; di qui probabilmente la denominazione French toast (che compare per la prima volta in stampa nel 1660 (R. May, Accomplisht Cook VI 162): "French Toasts. Cut French Bread, and toast it in pretty thick toasts on a clean gridiron, and serve them steeped in claret, sack, or any wine, with sugar and juyce of orange.", dove per pane francese, si intendeva un pane bianco o comunque di lusso. 
In Francia questa preparazione è invece conosciuta come Pain perdu, ossia pane perso (o dimenticato), dal momento che per cucinare tale piatto veniva utilizzato il pane raffermo che non poteva più essere servito come accompagnamento.

- è probabile che invece sia anglosassone la catalogazione come cibo da prima colazione - nel senso che in origine è probabile che fosse considerato un dolce da merenda o da fine pasto. 
A suffragio di questa teoria sono alcuni dei vari nomi con cui è conosciuto nei paesi del nord Europa: in Inghilterra è infatti anche noto come i Poor Knights of Windsor (che, per inciso, era un ordine militare formato da re Edoardo III nel XIV secolo), in Svezia come Fattiga Riddare, in Danimarca come Arme Riddere in Germania Arme Ritter, che significano tutti il povero cavaliere, non si sa se con accezione ironica.
Pare infatti che, anticamente, uno dei simboli di distinzione tra popolo e nobiltà fosse l'uso presso questi ultimi di consumare, a fine pasto, un dessert; ovviamente però non tutta la nobiltà aveva le stesse possibilità economiche, come ad esempio i cavalieri, che per mantenere comunque il proprio status sociale si accontentavano di un dolce più povero, come a dire: agiati sì, tanto da potersi permettere pane bianco, spezie, uova e confetture, ma non così ricchi da avere dei cuochi in grado di preparare dessert più elaborati.

Viene facilmente da pensare che questo piatto, composto da ingredienti facilmente reperibili e facile e veloce da preparare, servisse da colazione ai cavalieri durante le campagne militari, e che così si sia diffuso in tutta Europa e nei paesi dell'area mediorientale tramite le crociate; una volta tornati a casa, probabilmente era un cibo che richiamava alla memoria i bei tempi della gioventù nella milizia.


- in Italia la ricetta persiste ma, stranamente, ha avuto maggior fortuna nella versione salata, la cosiddetta Mozzarella in carrozza

Per un prode cavaliere... o una nobile dama

2 fette di pan carré (meglio se lasciate fuori dal sacchetto a seccarsi la sera precedente)
1 uovo
1 cucchiaio di latte (o di acqua, volendo, anche perché serve solo per stemperare meglio l'uovo)
1 cucchiaio di miele
cannella o peperoncino in polvere
sale
olio (o burro) per friggere

In un piatto fondo rompere un uovo e sbatterlo con una forchetta, aggiungendo un cucchiaio di latte e amalgamando il composto. 

Tagliare le fette di pan carré in quattro pezzi secondo la diagonale (come se fosse una croce di S. Andrea), e immergerle nell'uovo sbattuto finché non hanno assorbito uniformemente tutto il composto; friggerle in olio (o burro caldo) in una padella di ferro o antiaderente, girandole su entrambi i lati fino a che non sono ben dorate.

Scolare le fette e metterle in un piatto piano, ponendole in modo da formare la figura di una girandola (è domenica, è vero, ma siano pur sempre cavalieri, perbacco!)

Cospargerle con il miele e con un pizzico di cannella o, come personalmente preferisco, con miele, peperoncino e sale.

Servire caldo, accompagnando, se vi piace, con una tazza di caffè.

giovedì 21 giugno 2012

Fritti e segreti della signora Anna

Frittelle di lattuga e erba cipollina




Prima o poi doveva capitare; causa avanzare degli anni e una cattiva conformazione dentale ereditaria, sto attraversando un momento di tracollo odontoiatrico. 

Per fortuna, a cinque minuti di macchina c'è Guido il dentista che, oltre a supportarmi nelle emergenze - che ovviamente capitano sempre il venerdì sera o durante ferie e festività - ogni tanto mi rallegra raccontandomi le ricette della sua mamma, signora Anna, nativa della Liguria. 

Come ad esempio queste deliziose frittelle che essendo casualmente provvista della materia prima, ossia della lattuga o manigot che dir si voglia, ho immediatamente sperimentato. 
Perché - come dice il mio dentista - in Liguria si frigge tutto, partendo dal presupposto che ogni alimento, quand'è fritto, è buono...

E anche perché, se posso, da non nativa, permettermi di aggiungere, in Liguria sono ampiamente provvisti della materia prima per friggere, ossia dell'olio; che per fare un vero fritto ligure deve essere, oltre che abbondante - sfatando così il mito dell'eccessiva oculatezza degli abitanti - tassativamente extravergine di oliva. 

Ma non è tutto; esiste ancora un altro segreto del quale la signora Anna – nota per i suoi fritti saporiti e croccanti - è custode: l'aggiunta all'ultimo minuto, nella pastella, di mezza bustina di polvere per acqua frizzante (la cosiddetta acqua di Vichy). 

E siccome, come da tradizione, i misteri, per essere credibili, devono essere almeno tre, esiste un'ultima variabile, che magari non è rilevante (personalmente non l'ho sperimentata e quindi non posso affermarlo); essendo la signora celiaca, l'utilizzo della farina speciale per coloro che sono affetti da tale patologia. 

Non che i fritti della signora fossero - prima dell'uso di tale farina - di qualità inferiore; ma c'è un certo fondamento scientifico in tale teoria, perché il glutine, per la sua capacità di assorbire acqua e olio, non è amico delle fritture; e anzi, la pastella, proprio per evitare che il medesimo si formi, va preparata all'ultimo minuto. E anzi, andrebbe fatta con due tipi di farine, mescolate in parti uguali: farina di riso (povera di glutine) e farina di grano tenero (per il colore, il sapore e perché un po' di glutine ne aumenta viscosità e aderenza). Ma per spiegazioni più dettagliate relative alla chimica del sistema vi rimando al post molto esaustivo pubblicato su Ladri di ricette...
Tornando però all'argomento principale, occorre specificare che di queste frittelle esistono due versioni; una che prevede l'uso di cipolla - che ovviamente è più saporita - una senza, per ospiti intolleranti; personalmente ho sperimentato una versione con gambi di aglietto messi a riposare in acqua e bicarbonato, che è risultata perfettamente digeribile, anche grazie alla leggerezza del fritto... e ho quindi rivolto un grato pensiero alla signora Anna per questa bella ricetta ligure, che spero sia la prima di una lunga serie.

Per la cena in famiglia del sabato sera 

Cinque o sei foglie di lattuga, lavate, asciugate e tagliate a piccoli pezzi (se volete fare le persone acculturate di cucina usate le mani, personalmente trovo che le forbici siano molto più pratiche) 
Una manciata di foglie di erba cipollina (o cipolla bianca tritata, o gambi di aglietti) tagliati a pezzettini 
Qualche foglia di basilico tagliata a piccoli pezzi (nella ricetta non c’erano, ma io le ho utilizzate e le consiglio) 

Per la pastella 

Un uovo 
Quattro/cinque cucchiai di farina (potete provare con due cucchiai di farina di riso e tre di farina 00), per i celiaci senza glutine
Acqua fredda quanto basta per ottenere una pastella non troppo liquida (la consistenza deve essere simile a quella della pastella per le crepe) 
Mezza bustina di polvere per acqua Vichy 

Olio evo per friggere 
Sale q.b 

In una terrina capiente mescolare tutti gli ingredienti per preparare la pastella con una forchetta o la frusta, tranne la polvere per l’acqua Vichy che va aggiunta per ultima, una volta che tutti gli ingredienti sono amalgamati. 
Unire lattuga, erba cipollina e basilico mescolare il tutto e friggere mano a mano cucchiaiate del composto in abbondante olio evo caldo. 
Scolare le frittelle, metterle ad asciugare su carta da cucina, salarle e servirle calde.


venerdì 15 giugno 2012

Poggiapentole in alluminio anni '50





Geniali. Non c'è altra maniera di definire questi poggiapentole in alluminio
Perchè sono monoblocco, ossia costituiti da un solo pezzo in cui è solo una piega a creare la congiunzione tra la base e i piedini che la tengono sollevata.
Leggerissimi - sono stati ricavati da una lastra di circa un millimetro di spessore, forse meno, poco più dello spessore di una lattina di bibita; poco materiale, poco spreco di energia per produrli.
Monomaterici: è solo alluminio, non verniciato, facilmente riciclabile, sia per il tipo di materiale che per lo smaltimento.
Tecnologicamente avanzati: sfruttano il principio della trave reticolare, per la distribuzione dei carichi sulla superficie, e delle superfici nervate, per i piedini: nonostante la leggerezza sono quindi in grado di supportare carichi molto pesanti, quali pentole piene di cibo bollente, tenendoli sollevati e contribuendo al loro raffreddamento.
Facili da pulire: con acqua e detersivo o lasciandoli a mollo in acqua e ammoniaca, volendo fare un lavoro di fino che interessi anche le nervature delle gambe.
Facilmente impilabili, consumano poco spazio sia per il trasporto nelle operazioni di vendita che in cucina.
Belli, con un'estetica che rimanda a mondi di tecnologia espressionista della prima metà del secolo scorso da Metropolis (1927)di Fritz Lang (non per niente architetto) alla fantascienza dei fumetti di  Flash Gordon (1934)...
Unico neo: sono praticamente indistruttibili - sono in servizio attivo da oltre mezzo secolo - il che, si sa, in realtà non coincide con le esigenze di vendita della produzione di oggetti di design.
Ma come vorrei che di questi oggetti se ne progettassero di più.

lunedì 11 giugno 2012

Pesca nel vino

Minimalia n.7




Un tempo, nei vigneti del Piemonte, le fasce di terreno lasciate libere tra i filari venivano utilizzate per coltivare alcuni tipi di verdure, compatibili con le coltivazioni, - patate, pomodori, insalate  - sia per uso domestico che per la vendita ai mercati, e piante da frutta, in particolare i peschi, che davano come frutto le famose pesche di vigna.
E un dessert/frutta estivo un tempo molto apprezzato - che si può ancora trovare nelle piole, ossia le osterie  che mantengono le tradizioni culinarie del territorio - è la pesca nel vino, servita, come da tradizione contadina, in rustici bicchieri di vetro spesso da tavola, appannati dal freddo.
Per questo dessert, che va preparato con un certo anticipo perché, per meglio prendere sapore, deve riposare almeno un'ora al fresco  prima di essere consumato occorre però, ovviamente, avere dell'ottima materia prima: del buon vino rosso - un bel Barbera, un pregiato Dolcetto, o i nobili Grignolino o Nebbiolo, ad esempio - delle pesche mature - due o tre per commensale, a seconda delle dimensioni - e un cucchiaino di zucchero.
Si lavano e asciugano le pesche - non occorre pelarle - e si tagliano a fettine, mettendole in un bicchiere di vetro; si spolvera il tutto con un cucchiaino di zucchero - non occorre girare - e si aggiunge il vino fin quasi a coprire le pesche; si mette a riposare in frigo, per far si che le pesche acquisiscano il sapore del vino e, a loro volta, cedano il loro succo. 
Si mangiano le fette di frutta con il cucchiaino - o, meglio ancora, a fine pasto, usando più rusticamente la forchetta -  e, alla fine, - ed è il momento migliore - si beve il vino rimasto, dolce e fruttato...

martedì 5 giugno 2012

Antiche sere

Zuppa di baccelli di fave con maltagliati di farina integrale




In Piemonte, al tempo dei nostri nonni e soprattutto nelle zone di montagna, era diffusa l'abitudine di iniziare il pasto con un piatto di minestra calda - seguito magari da un pezzo di formaggio e della frutta.
Perché la cena - lo dicono adesso i dietologi, ma lo sapevano anche i nostri avi - bisogna tenersi più leggeri che a pranzo; e alla salute fa bene non solo mangiare verdure e cereali integrali, ma anche utilizzare le parti di scarto delle verdure, ricche di fibre e vitamine...

Per una cena virtuosa 
(per l'ambiente e la salute...)

Per la zuppa

I baccelli (ossia le bucce) di un kilo di fave
3 piccole patate
1 spicchio d'aglio
1 dado vegetale
acqua
sale
pepe

Per la pasta
1 uovo
1 etto di farina integrale
1 pizzico di sale
acqua q.b. per impastare

In una ciotola capiente mescolare farina, uovo, sale e acqua e impastare fino a ottenere una palla di pasta soda ed elastica. Lasciare riposare per circa mezz'ora, poi stendere la pasta con un mattarello o con la macchina per pasta; in tal caso dividere l'impasto in parti più piccole e passarlo nella macchina della pasta, utilizzando prima i livelli per ottenere spessori più grandi, fino ad arrivare allo spessore 1 (il più sottile), sempre spolverando la pasta con la farina per evitare che attacchi ai rulli e tagliando le strisce di pasta più piccole man mano che si allungano, per poterle gestire meglio.
Far riposare le strisce di pasta per 15 minuti e con un coltello o l'apposita rotella per tagliare la pasta, tagliare l'impasto in losanghe che si mettono, ben separate, ad asciugare su un piano spolverato di farina. 

Sbucciare le fave tenendo da parte i baccelli, che vanno privati dei filamenti esterni. 
In una pentola a pressione cuocere i baccelli, lo spicchio d'aglio e le patate pelate e tagliate a piccoli pezzi con poca acqua  fino a che non diventano morbidi (ci vorranno all'incirca cinque minuti dopo che la pentola sarà entrata in pressione). Frullare gli ingredienti nel mixer, aggiungere un litro e mezzo d'acqua, un dado vegetale, sale e pepe e portare a ebollizione; aggiungere la pasta e tenere sul fuoco fino a cottura della medesima.
Condire con un cucchiaio d'olio evo.



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